24 gennaio 2023 QUEL GIORNO TU SARAI
METTI UNA SERA AL CINEMA 33
QUEL GIORNO TU SARAI
Per la Giornata della Memoria
QUEL GIORNO TU SARAI – regia di Kornél Mundruczò
Genere DRAMMATICO - durata 97 minuti
Piombati nell'inferno concentrazionario tre soldati polacchi provano a lavare l'impossibile. A turno gettano secchi d'acqua sul pavimento, insieme spazzano con vigore le pareti fino a rimuovere dall'intonaco ciocche di capelli intrecciati come un enigma. Poi un grido sorge da quel luogo sotterraneo dove la morte inghiottiva in massa. È il pianto vivo di Eva. Anni dopo, il trauma di quella bambina, sopravvissuta alla Shoah, passa come una maledizione a sua figlia, Lena, che ha un figlio adolescente e una vita senza pace, e poi al nipote, Jonas, che vive con la madre a Berlino e si innamora per scongiurare le aggressioni razziste di un nuovo secolo. Tre esistenze, la stessa famiglia marcata dalla Storia.
I tempi della memoria in un grande film
d'autore. È un film sulla Shoah, ma tutt’altro che un tributo rituale a una
memoria necessaria, (titolo originale “Evolution”). Prima di “Pieces of a
Woman”, supportato da Martin Scorsese in veste di produttore esecutivo,
l’autore ungherese era soltanto un beniamino dei Festival e dei cinefili. Il
suo primo film in inglese, che ha ottenuto a Venezia la Coppa Volpi per Vanessa
Kirby, gli ha conquistato l’attenzione del grande pubblico. A fianco del regista, ancora una volta, la
sceneggiatrice Kata Weber, sua compagna di vita e di lavoro, e lo stesso
Scorsese, per il quale questo film riesce “a drammatizzare il movimento stesso
del tempo, il modo in cui ricordiamo e il modo in cui dimentichiamo”. Non è
statica, la memoria, è in evoluzione costante. Ed è la diversa percezione
dell’Olocausto, attraverso le generazioni, a porre le domande più inquietanti. Mundruczò affida ai suoi esasperati,
virtuosistici piani sequenza il compito di comunicare l’esperienza di un trauma
che dai campi di sterminio proietta tentacoli cupi sulla Germania di oggi. E un
film articolato in tre episodi e tre epoche, legati dal filo rosso dei
sopravvissuti. Tredici minuti di piano sequenza, nel primo episodio, sono un
percorso surreale dalle tenebre opprimenti di un bunker senza nome fino alla
luce di una scoperta toccante e miracolosa. Una bambina ebrea piccolissima, che
si chiamerà Eva, è sopravvissuta al mattatoio di Auschwitz, è il gennaio del
1945. Tra il buio e la luce però si è materializzato l’orrore: le crepe dei
muri celano grumi di capelli, come un intonaco cementato dal dolore umano. Eva ha 80 anni, nel secondo episodio, è affetta da
demenza senile, e racconta alla figlia, in un lancinante frammento di dialogo,
i dettagli di come fu partorita, in piedi, a gambe larghe, mentre le donne
facevano muro intorno a sua madre. Non può ricordare, ma sa. Come sa di essere
ancora vittima, nella sua povera casa di Budapest, di discriminazioni che si
perpetuano: lo stato ungherese si appiglia a un cavillo per negare quei pochi
soldi di sovvenzione ai sopravvissuti dei lager. È un unico piano sequenza di
36 minuti, magnifico, girato da un direttore della fotografia superstar come
Yorick Le Saux. Uno tsunami metaforico di acqua, dagli armadietti, dai muri,
chiude l’episodio nell’unica scena aggiunta, collegandosi all’acqua
dell’episodio iniziale. Sono fluide memoria e identità, e il modo in cui ci
rapportiamo ad esse può sopraffarci o tenerci a galla. Ma formidabile,
soprattutto, è Lili Monori, icona del teatro e del cinema ungherese, col volto
devastato e illuminato da mille cicatrici di vita. La sua demenza (resa con la
smarrita intensità dell’Anthony Hopkins di “The Father”), è uno scrigno della
memoria remota, solido e inespugnabile. La
ricerca stilistica e la scrittura di “Quel giorno tu sarai” segnano un capitolo
a parte nella filmografia sull’Olocausto. Meno folgorante purtroppo è il terzo
episodio, protagonista la terza generazione. Lo spettro dell’antisemitismo
risorge intorno al nipote di Eva, Jonas, mascherato da banale bullismo nella
Berlino di oggi. Ma c’è una sorta di volontarismo politically correct nella
solidarietà che lega il ragazzino ebreo alla compagna di scuola musulmana, come
lui isolata ed esclusa. È il mondo come lo vorremmo, ma la simbologia è troppo
facile, anche se affrontata con uno spessore lontano dai teen movies su
tematiche simili. È speranza, comunque. E la speranza fa sempre bene.