Schede CINEMA DIFFUSO 2007-2008
DOPO IL MATRIMONIO
Regia: Susanne Bier. Soggetto: S. Bier, Anders Thomas Jensen. Sceneggiatura: A. T. Jensen. Fotografia: Morten Søborg. Scenografia: Søren Skjaer. Musica: Johan Söderqvist. Montaggio: Morten Højbjerg, Pernille Bech Christensen. Interpreti: Mads Mikkelsen, Rolf Lassgård, Sidse Babett, Stine Fischer, Christian Tafdrup, Frederik Gullits. Produzione: Zentropa Entertainments. Origine: Danimarca/Svezia 2006. Tit. originale: Efter brylluppet. Durata: 112'.
Il danese Jacob si occupa come un missionario laico dei piccoli orfani indiani, ma l'orfanotrofio rischia di chiudere per mancanza di fondi. Giunge proprio allora l'offerta di Jorgen, ricchissimo uomo d'affari che prospetta una donazione in miliardi ma esige d'incontrare personalmente Jacob in Danimarca. Partito riluttante, questi deve accettare anche l'invito al matrimonio della figlia del potenziale benefattore, salvo scoprire che la madre della sposa è il suo grande amore perduto. Mentre comincia a domandarsi se l'incontro sia un capriccio del destino, oppure il risultato di una macchinazione, si affacciano interrogativi sulla responsabilità personale tali da mettere in crisi chiunque.
Presentato alla Festa del Cinema di Roma, candidato danese agli Oscar, il nuovo film della regista di Non desiderare la donna d'altri è un melodramma dal soggetto a rischio, passibile di scivolare (soprattutto nella seconda parte) in una sorta di "cinema del dolore" strappalacrime e un po' menagramo. Ma poiché a contare è il modo in cui le cose si dicono, il linguaggio, la cineasta danese evita d'incorrere in questo genere d'incidente: la sua regia sobria, commovente ma non patetica, parla direttamente ai sentimenti dello spettatore senza mai dargli la sensazione che qualcuno lo stia manipolando.
Memore del Dogma di Lars von Trier, lo stile realistico della rappresentazione aggiunge credibilità, con l'aiuto di un ottimo cast.
(Roberto Nepoti )
Susanne Bier
È oggi la regista più stimata e popolare della Scandinavia. Il suo film del 1999, The One and Only, è tra i cinque film più visti della storia del cinema danese. Susanne Bier si è aggiudicata numerosi premi internazionali, soprattutto con Non desiderare la donna d’altri del 2004, tra cui il Toronto Film Festival, il San Sebastian Film Festival, il Sundance Film Festival (come miglior film straniero) e il London Film Festival, ottenendo anche sei candidature agli European Film Awards.
CUORI
Regia: Alain Resnais. Sceneggiatura: A. Resnais, Jean-Michel Ribes, dalla pièce teatrale Private Fears in Public Places di Alan Ayckbourn. Fotografia: Eric Gautier. Scenografia: Jean-Michel Ducourty, Solange Zeitoun, Jacques Saulnier. Musica: Mark Snow. Montaggio: Hervé de Luze. Interpreti: Sabine Azéma, Lambert Wilson, André Dussollier, Pierre Arditi, Laura Morante. Produzione: Arena Films, France 2 Cinema, Studiocanal. Origine: Francia/Italia 2006. Tit. originale: Cœurs. Durata: 123'.
Cuori è un'opera compatta e riuscita. Il film è la trasposizione cinematografica di un bel testo teatrale, Private Fears in Public Places del commediografo inglese Alan Ayckbourn - già adattato da Resnais anni fa nel dittico Smoking/No Smoking - e rispecchia appieno lo spirito del suo regista: arguto senza ostentare fisime cerebrali, divertente e sottile nel raccontare disperate storie di solitudine. Cuori segue da vicino - a volte da vicinissimo con la macchina da presa incollata ai volti dei protagonisti - le tragicomiche storie di sei personaggi legati tra loro in maniera casuale: un agente immobiliare e la sua collaboratrice apparentemente devota e castigata, una giovane donna alla ricerca di un incontro sentimentale affidato a inserzioni sui giornali, una coppia formata da una donna nevrotica e un ex militare semialcolizzato, il barista del locale dove quest'ultimo passa gran parte delle sue giornate. Resnais riesce, grazie anche alla solidità del testo, a evitare ogni rischio di tipizzazione dei personaggi regalando a ognuno di loro un'umanità a tratti disperata. Le solitudini sono raccontate senza retorica e l'ironia che l'autore sparge nel film aiuta a costruire un'empatia non ricattatoria con le storie che si svolgono sullo schermo. E tutte queste storie, divertenti e malinconiche, sono raccontate con esattezza di stile, in ambienti fatti di superfici traslucide e riflessi deformanti con personaggi che spesso si spiano, comunicano, si incontrano scrutandosi attraverso tramezzi, vetri, tende che sottolineano le visibili barriere che li separano. Il tutto in una Parigi eternamente coperta da una coltre di neve - usata anche come dissolvenza tra una scena e l'altra - che dona al film un tono antirealista sospeso in una dimensione quasi senza tempo e che rende profondamente cinematografica l'operazione nonostante l'impostazione prettamente dialogica e l'assenza quasi assoluta di ambienti esterni.
Federico Pedroni
Alain Resnais
Classe 1922, esordisce nel 1948 con un documentario d'arte, Van Gogh, che vince due premi a Venezia e un Oscar. Nel 1958 realizza il suo primo lungometraggio Hiroshima mon amour, cui fanno seguito 13 film tra cui il drammatico L'anno scorso a Marienbad, vincitore del Leone d'oro nel 1961. Con Mon oncle d'Amérique (1980) vince il Premio speciale della giuria al Festival di Cannes. Nel 1995 riceve il Leone d'oro alla carriera.
GRIZZLY MAN
Regia, soggetto: Werner Herzog. Fotografia: Peter Zeitlinger. Musica: Richard Thompson. Montaggio: Joe Bini. Interpreti: Franc G. Fallico, Amie Huguenard, Timothy Treadwell. Produzione: Discovery Docs. Origine: Canada/USA 2005. Tit. originale: Grizzly Man. Durata 100'.
Dire che Timothy Treadwell è anche Fitzcarraldo che è anche Francisco Manoel Da Silva e pure Woyzeck e ancora Aguirre e di nuovo l'intagliatore Steiner, è un po' banale (ormai). Dire che Timothy Treadwell, al pari di tutti gli altri personaggi herzoghiani, è specchio dell'animo, degli ideali e della tensione di Herzog stesso, è altresì abbastanza scontato. Dire però che l'ambientalista e studioso degli orsi grizzly Timothy Treadwell - ucciso in Alaska assieme alla collega e fidanzata Arnie Huguenard dalle medesime bestie che così tanto e profondamente lo ossessionavano - rappresenta in qualche modo lo iato atavico tra il dato e l'aspirazione contemporanei, lo è forse meno. Treadwell sta con la sua morte e ne è consapevole. Ci sta, però, perché ne è "intriso dentro", cosciente a tal punto da studiarla da vicino. Treadwell così è l'uomo di oggi, in lotta perenne tra una finitezza insoddisfacente e un altro(ve) a cui ovviamente non ci si può avvicinare troppo. Pena, appunto, la morte. Ma Herzog, che è uno dei cineasti più grandi di ogni tempo, e per il quale dovremmo ringraziare chi di dovere per la sua esistenza, non è ingenuo a tal punto da "restare a bocca aperta" (non lo è mai stato), affascinato per gli spazi e il coraggio del personaggio, o estasiato per la sua megalomania; invece la sua voce fuori campo - e di conseguenza lo sguardo della sua macchina da presa - è attonita, a volte sconvolta, perfino incredula, anche ironica: di fronte alla sconsideratezza - anche la più rispettabile, anche la più giusta - la saggezza può fare dei brutti scherzi, e troncare le gambe sul nascere all'entusiasmo. Werner Herzog guarda ancora alla pazzia come a una strada privilegiata attraverso cui uscire da una vita di stenti (morali e mentali); però il suo osservare non è più partecipe a priori, bensì estremamente lucido (provate a vedere anche Il diamante bianco). Questa è la (nuova) filosofia. Ed è invidiabile.
Pier Maria Bocchi
Werner Herzog
Nel 1968 gira il suo primo lungometraggio, Lebenszeichen (Segni di vita). Nel 1972 realizza Aguirre, furore di Dio, il film che gli dà la notorietà internazionale, e nel 1974 L'enigma di Kaspar Hauser un grande successo di critica che vince il Premio speciale della giuria al Festival di Cannes, riconfermato nel 1982 con Fitzcarraldo. Nel 1984 segue Reinhold Messner in una spedizione e ne ricava il film-reportage L'oscuro bagliore delle montagne.
IN VIAGGIO CON EVIE - DRIVING LESSONS
Regia, soggetto, sceneggiatura: Jeremy Brock. Fotografia: David Katznelson. Scenografia: Amanda McArthur. Musica: Clive Carroll, John Renbourn. Montaggio: Trevor Waite. Interpreti: Julie Walters, Rupert Grint, Laura Linney, Nicholas Farrell, Oliver Milburn, Michelle Duncan. Produzione: Rubber Tree Plant, United Casting. Origine: GB 2005. Tit. originale: Driving Lessons. Durata: 98'.
È arrivato il momento della crescita artistica per Rupert Grint. Dopo essersi messo in luce nella saga di Harry Potter, il giovane attore dai capelli rossi ha deciso di affrontare un ruolo da protagonista e lo fa con un personaggio alle prese proprio con il fatidico passaggio all'età adulta sotto la stravagante guida di una donna interpretata da Julie Walters. Ben Marshal è un timido teenager vessato da una madre rigida e dispotica. La svolta nella sua vita arriva però quando incontra Evie, una star del cinema in declino alla ricerca di un assistente. Anticonvenzionale, a tratti un po' volgare, la donna coinvolge Ben in una serie di spericolate avventure fino al Festival di Edimburgo, dove una graziosa coetanea gli fa battere per la prima volta il cuore. Jeremy Brock dirige una commedia brillante costruita sulla considerazione che l'energia e l'entusiasmo non sono necessariamente legati all'età anagrafica.
Alberto Castellano
Ricordate Harold e Maude, la commedia cult di Hal Ashby sulle inquietudini di una generazione di adolescenti che hanno bisogno di imparare ad amare la vita e la libertà da vecchi molto più giovani di loro nello spirito? Il tasso di anarchia non è lo stesso nel film dell'esordiente Jeremy Brock, eppure il timido diciassettenne Ben (Rupert Grint), divenuto assistente di un'eccentrica, irriverente e boriosa attrice ormai dimenticata (Julie Walters), saprà scrollarsi di dosso con una rabbia non comune a molti adolescenti del grande schermo la zavorra di una famiglia ultraconservatrice e ipocrita. Ottima come sempre Laura Linney, generosissima con i registi alle prime armi.
Alessandra De Luca
Jeremy Brock
Inizia nel 1985 una brillante carriera da sceneggiatore: il primo lungometraggio al quale lavora è La mia regina - Mrs. Brown (1997) di John Madden. Brock ha curato anche la sceneggiatura del film The Last King of Scotland (2006) di Kevin MacDonald in uscita nelle sale italiane nel 2007. Driving Lessons è la sua opera prima, ispirata alla sua adolescenza, spesa al servizio dell'attrice Peggy Ashcroft.
IL VENTO FA IL SUO GIRO
Regia: Giorgio Diritti. Soggetto: Fredo Valla. Sceneggiatura: G. Diritti, Fredo Valla. Fotografia: Roberto Cimatti. Montaggio: Edu Crespo, Giorgio Diritti. Musica: Marco Biscarini, Daniele Furlati. Interpreti: Thierry Toscan, Alessandra Agosti, Dario Anghilante, Giovanni Foresti. Produzione: Aranciafilm, Imago Orbis Audiovisivi. Origine: Italia 2005. Durata: 110'.
La storia si svolge nelle valli occitane del Piemonte. Protagonista è un ex professore francese alla ricerca di un’esistenza secondo i tempi della natura per sé e la sua famiglia. L’uomo si è fatto contadino-pastore e viene a insediarsi a Chersogno.
Uomo e natura: un equilibrio difficile in relazione in particolare allo sviluppo, ma anche un richiamo forte che accomuna molte persone scontente della loro vita e alla ricerca delle sensazioni primordiali dell'esistere.
La storia si sviluppa in una dimensione corale dove si distinguono due entità; il "paese" e la famiglia del pastore francese.
Tra i temi posti in sottotraccia vi è certamente il rapporto di soddisfazione e insoddisfazione che hanno i vari personaggi nei confronti della vita. Le loro scelte e i loro umori sono lo specchio di queste sensazioni. Non si cerca quindi di proporre riflessioni sull'ecologismo o su una fascinazione per filosofie New Age. C’è al contrario l'osservazione di uomini che nella briciola di tempo della loro esistenza cercano un'identità che gli corrisponda, credono di poterla gestire, costruire, la inseguono, la ricercano disperatamente; o di altri che non la identificano più, avendo fatto proprio il ruolo che gli schemi della società o le amarezze della vita gli hanno costruito attorno.
In questa dimensione tutto appare sospeso, possibile ma allo stesso tempo definito. Affiora la sensazione del destino, come ricorda una piccola filosofia popolare citata da uno dei personaggi del film: «Le cose sono come il vento, prima o poi ritornano».
Gli eventi propongono una riflessione sulle scelte personali, su quelle che potranno caratterizzare il futuro, che potranno forse modificarlo per renderci intimamente più felici, in pace con noi stessi.
Giorgio Diritti
Ha sviluppato la sua formazione prestando la sua opera in diversi film di autori italiani, in particolare con Pupi Avati. Come autore e regista ha realizzato numerosi documentari, produzioni editoriali e televisive. In ambito cinematografico il primo cortometraggio, Cappello da marinaio è stato selezionato in concorso in numerosi festival europei tra cui quello di Clermont-Ferrand. Nel 1993 ha realizzato Quasi un anno, film per la TV prodotto da Ipotesi Cinema e RAI 1.
IL MATRIMONIO DI TUYA
Regia: Wang Quan'an. Soggetto, sceneggiatura: Lu Wei, Wang Quan'an. Fotografia: Lutz Reitemeier. Scenografia: Wei Tao. Sonoro: Peng Jiang. Montaggio: Wang Quan'an. Interpreti: Yu Nan, Bater, Senge, Peng Hongxiang, Zhaya. Produzione: Xi'an Motion Picture Co. Ltd., Maxyee Culture Industry Co. Production. Origine: Cina 2006. Tit. originale Tu ya de hun shi. Durata: 96'.
Gobbe scure di cammello, greggi di montoni, scialli multicolore, lande di terra screpolata ai margini del mondo. Quella che passa davanti ai nostri occhi nel primo film cinese di Wang Quan'an, Il matrimonio di Tuya, è una “pastorale mongola” che non si chiude nei cerchi atemporali del mito, ma si lascia permeare sullo sfondo, e sempre fuori campo, dall'alito lontano dei grandi ribaltoni industriali della Cina di oggi. E così, l'occhio a mandorla della Berlinale, dopo aver rimpolpato con Park Chan-wook esuberanze patologiche coreane, ieri si è messo a scandagliare quei vasti lembi di suolo abbandonato che stanno nel nord-ovest della Mongolia interna e che oggi sembrano inchiodati ai bordi improduttivi della Storia.
Così, mentre il governo costringe i pastori a trasferirsi nelle vicinanze delle città per reclutarli come forza contadina, ecco profilarsi l'ultimo baluardo di terra dedicata al pascolo e lì, in mezzo, il lavoro di resistenza della protagonista Tuja, donna dagli zigomi che paiono scolpiti dal vento proprio per il tempo speso nella steppa a cavalcare in solitaria il proprio bestiame, combattendo contro tutte le avversità. Che non sono poche e man mano vanno a coagularsi in un dramma epico-sentimentale, vista la presenza di un marito handicappato e il tentativo, al sopraggiungere di nuovi problemi di salute, di sposarsi una seconda volta per riuscire a mantenere l'intera famiglia. Sta lì, in fondo, lo sforzo dolcemente titanico di una donna che cerca di “aggiustare” il compromesso con le usanze tradizionali nel punto più alto della sua dignità personale. Una costanza che fa da plasma sotterraneo a un film riuscito e delicato nella sua costruzione visiva, tanto da spingersi avanti nella misura piena dei suoi soffi drammatici. (Lorenzo Buccella )
Wang Quan'an
Nasce nel 1965 a Yanan nella provincia Shaanxi. Frequenta la scuola di cinema a Beijing e dopo il diploma, nel 1991, lavora presso lo Xian Film Studio, scrivendo sceneggiature. Realizzato nel 2000, il suo film d'esordio Yue Shi - Lunar Eclipse conquista riconoscimenti in diversi festival internazionali. Il suo secondo film, Jingzhe - The Story of Ermei partecipa al Festival di Berlino nel 2004 nella sezione Panorama. Con Il matrimonio di Tuya conquista l'Orso d'oro nel 2006.
DARATT
Regia, soggetto, sceneggiatura: Mahamat-Saleh Haroun. Fotografia: Abraham Haile Biru. Musica: Wasis Diop. Montaggio: Marie-Hélène Dozo. Interpreti: Ali Bacha Barkaï, Youssouf Djoro, Aziza Hisseine, Djibril Ibrahim, Fatimé Hadje, Khayar Oumar Defallah, Laora Bardos. Produzione: Chinguitty Films, Entre Chien et Loup, Goi-Goi Productions, New Crowned Hope, Vienna 2006, Arte France Cinema. Origine: Austria/Belgio/Ciad/Francia 2006. Tit. originale: Daratt. Durata: 96'.
Nel Ciad la stagione secca, o Daratt, va da maggio a novembre e arriva dopo la stagione delle piogge. Insomma, il sereno dopo la tempesta. Mahamat-Saleh Haroun rende il concetto meteorologico metafora per l’attesa, ricerca cinematografica della pacificazione dopo una guerra fratricida che ha insanguinato il Ciad di Hissène Habré per oltre quarant'anni, provocando più di 40 mila morti. Il cinema africano dopo 14 anni torna in concorso al Lido, proponendo la vicenda del sedicenne Atim, alla ricerca dell’assassino del padre dopo un’amnistia governativa per i criminali di guerra che fa andare fuori di senno parecchi oppositori del regime. In un solo enunciato narrativo si racchiude la rabbia di fronte all’ingiustizia e il desiderio di vendetta si trasforma in una coerente e decisa compensazione di giustizia. Il percorso vendicativo è diretto, senza mediazioni. Ma qualcosa s’inceppa e Atim finisce per diventare una sorta di intruso benvoluto in casa e nella bottega del panettiere Nassara.
Scarpe e sandali gettati al vento, pistole e fucili chiusi negli armadi, frutta e pane simboli di rinascita e della vita, coordinate minime a cui si è ridotto un paese devastato dalla guerra e in via di ricostruzione, dove la figura corrucciata di Atim si carica del più classico dei dilemmi: perpetuare socialmente l'odio all’infinito o immolare l’istinto individuale dell’occhio per occhio, dente per dente? Ma Daratt è anche cinema stilisticamente affascinante dove, attraverso l’inquadratura, con relativa costruzione dello spazio filmico, si attua la più tradizionale suspense. Perché in fondo il film di Mahamat-Saleb Haroun è un thriller essenziale, senza digressioni, imbevuto della polvere della strada, della farina del pane che imbianca i protagonisti, di inquietanti sguardi rivelatori che, senza sparatorie e spargimenti di budella, gelano il sangue. (Davide Turrini)
Mahamat-Saleh Haroun
Mahamat-Saleh Haroun studia regia cinematografica in Francia e nel 1986 inizia a lavorare come giornalista. Nel 1994 debutta con il corto Maral Tanie e cinque anni dopo realizza il suo primo lungometraggio Bye Bye Africa che conquista due premi a Venezia. Nel 2002 è la volta di Abouna, presentato al Festival di Cannes. La sua ultima pellicola, Daratt, ha ottenuto il premio speciale della giuria alla 63 Mostra del Cinema di Venezia.
SATURNO CONTRO
Regia: Ferzan Ozpetek. Soggetto, sceneggiatura: Gianni Romoli, F. Ozpetek. Fotografia: Gianfilippo Corticelli. Musica: Neffa. Montaggio: Patrizio Marone. Scenografia: Massimiliano Nocente. Interpreti: Stefano Accorsi, Margherita Buy, Luca Argentero, Ambra Angiolini, Ennio Fantastichini, Isabella Ferrari. Produzione: R&C Produzioni. Origine: Italia 2006. Durata: 110'.
Ci sono nove amici le cui vite si sono intrecciate in momenti diversi, prima il nucleo storico, poi i nuovi arrivati. I nove amici sono borghesi, tutto sommato appagati dal loro lavoro e dalla loro sessualità, qualunque essa sia. Saturno contro comincia così, con il piano fisso della schiena di due uomini che stanno lavorando per preparare la cena: un rito amico, un piacere nel gusto e nel tatto, una consuetudine che rassicura. Arrivano alla spicciolata, si siedono intorno al grande tavolo di cucina, battibeccano, si prendono in giro, si irrigidiscono, si rilassano. «Voglio che tutto rimanga come adesso. Per sempre. Anche se so che per sempre non esiste», dice la voce off di Lorenzo, che ci accompagna per tutta la prima parte del film e nel finale. Ma appunto "per sempre" non esiste, la vita va per la sua strada e qualcuno o qualcosa si intromette a incrinare un equilibrio all'apparenza ideale. Capita di avere "Saturno contro" a tratti o, più spesso, a lungo (è un pianeta lento). E anche le amicizie e i rapporti più solidi hanno bisogno talvolta di essere "oliati". Le screpolature sono percettibili fin dall'inizio. Una coppia va in crisi, un'altra viene colpita del destino, segnali rosso acceso invadono la scena, il melò è alle porte. Ferzan Ozpetek fonde con grande sicurezza i sorrisi della commedia e i magoni del melodramma, delle disgrazie improvvise che strappano il cuore, del senso di perdita che strazia, del buco nero diverso che si spalanca davanti a ognuno. Ci sono scene bellissime e silenziosissime in Saturno contro, attese sulla panca di un ospedale, passi verso una camera mortuaria, attrazione trepidante per un abisso; ci sono scene di passione irrefrenabile (la breve passeggiata degli amanti, la porta che si chiude su un bacio, il carrello all'indietro). E soprattutto c'è l'acume discreto con cui ogni personaggio svela se stesso, la tenerezza quotidiana di rapporti nei quali riconoscersi e ritrovarsi, nonostante tutti i nostri difetti e tutti i "casi" della vita. (Emanuela Martini)
Ferzan Ozpetek
Debutta alla regia nel 1997 con Il bagno turco - Hamam. Il suo terzo film, Le fate ignoranti, viene selezionato in concorso al Festival di Berlino nel 2001. Successivamente gira La finestra di fronte, uno dei maggiori successi di pubblico e critica della stagione cinematografica 2003. Nel 2004 con Cuore sacro ottiene numerosi riconoscimenti tra cui due David di Donatello e il premio come Maestro Emergente del Cinema Internazionale al Festival di Seattle.