28 gennaio 2020 IL RITRATTO NEGATO
METTI UNA SERA AL CINEMA 31
IL RITRATTO NEGATO
IL RITRATTO NEGATO
Powidoki -
Il ritratto negato Regista: Andrzej Wajda Genere:
Biografico Paese:
Polonia Durata: 98 min Data di uscita: 11 luglio 2019 Distribuzione: Movies Inspired Attori: Boguslaw Linda, Aleksandra Justa, Bronislawa Zamachowska, Zofia Wichlacz, Krzysztof Pieczynski Sceneggiatura:
Andrzej Wajda, Andrzej Mularczyk Fotografia: Pawel Edelman Montaggio:
Grazyna Gradon
Càpita così
spesso che tendiamo a non farci più caso. Il titolo italiano è fuorviante. Non
c’è un ritratto che sia negato, in quest’ultimo film di Andrzej Wajda.
Anzi, il film riesce a esserlo in maniera convincente, e paradossale, un
ritratto, del pittore e professore Władysław Strzemiński, anche se “in
assenza”, ovviamente, affidato all’incarnazione magnetica offerta dall’attore
protagonista, Bogusław Linda; lo è proprio perché evita la prevedibilità
drammaturgica di tanti biopic, la tentazione di spezzare la progressione con
flash-back o digressioni didascaliche, di comprimere una vita intera in una un
paio d’ore. È il ritratto di un resistente e resiliente, in un momento
preciso, negli ultimi quattro anni della sua vita; un ritratto del suo continuo
cadere e rialzarsi, in un contesto sempre più ostile; e d’altra parte, fin
dalla primissima sequenza Strzemiński, mutilato durante la prima guerra
mondiale (ma il come avesse perso una gamba e un braccio rimane un
interrogativo per tutto il film, una delle tante domande lasciate volutamente
senza risposta), entra in scena rotolando, gioioso, su un pendio di montagna,
durante una lezione en plein air; rotola per avvicinarsi ad accogliere quella
che sarà una delle più devote tra le sue allieve, Hania.
Immediatamente,
con grande spontaneità, l’artista e professore dell’accademia di belle arti di
Łódź introduce la propria teoria della visione alla ragazza e agli altri compagni,
che devono averla già sentita mille volte, ma sono ugualmente galvanizzati dal
suo carisma: «l’immagine deve essere soprattutto quello che si assorbe,
da questo e da quello. Quando noi guardiamo un oggetto, ci rimane il suo
riflesso nell’occhio, quando smettiamo di guardarlo e spostiamo lo sguardo
altrove, un’immagine residua dell’oggetto rimane nell’occhio, una traccia
dell’oggetto con forma uguale, ma stranamente di colore opposto. Un’immagine
residua [powidoki, che è, appunto il titolo originale], le immagini residue
sono i colori dentro l’occhio che guarda un oggetto, perché noi vediamo solo
quello di cui siamo veramente consapevoli». Ma è il 1948: quel principio
di consapevolezza e di avanguardia che era stato il motore, fino dal 1918,
dell’attività di Strzemiński e della ex-moglie, la scultrice Katarzyna Kobro, è
fuori asse rispetto al processo di sovietizzazione della Polonia. Quel
principio sì che viene negato, insieme alla teoria dell’immagine residua,
troppo inafferrabile per le linee guida semplicistiche e inarrestabili del
realismo socialista in una nazione avviata al socialismo reale: eppure è una
teoria altrettanto realista, o perlomeno aggrappata alla fisiologia, e distante
dalla mistica o dalla trascendenza (non a caso poco dopo la lezione su Van Gogh
rimarca questo anti-spiritualismo) e per questo, lontana dalle posizioni
teoriche di Malevič, di cui sia Strzemiński che Kobro erano stati amici
ed estimatori. Nella scena immediatamente successiva, nello studio
dell’artista, la tela vuota che sta per cominciare a dipingere diventa rossa,
perché uno stendardo col volto di Stalin, dalla piazza, ostruisce
la finestra e filtra la luce, colorandola.
Un presagio?
Di sicuro Strzemiński non apprezza quell’intrusione nella sua visione,
nella sua consapevolezza: si alza, va alla finestra e lacera la tela con una
stampella (quasi un taglio da far ingelosire Fontana): la luce, ritorna, ma per
pochissimo. È l’inizio del declino vero, di un rotolare in basso in cui si
dissolve la gioia luminosa dell’incipit, contrastato giusto da una testarda
resilienza, dalla forza di rialzare la testa mentre dagli angoli sempre più
oscuri dello schermo emergono funzionari diligenti o burattini in divisa
appiattiti e atterriti dal nuovo corso politico. È una battaglia, persa, contro
l’ignoranza travestita da legge, contro la protervia camuffata da diligente
applicazione delle regole. Di lì a poco la Sala neoplastica del Museo d’Arte di
Łódź, di cui lui stesso è stato fondatore, esplicitamente impostata su linee e
colori derivati dalle composizioni di Mondrian, e allestita con opere
sue e della moglie, viene smontata; la tessera del sindacato degli artisti
ritirata; gli oli e le tempere rifiutati, il lavoro negato;
negato il cibo perché il sistema non lo riconosce nemmeno come invalido di
guerra; gli allievi incarcerati come dissidenti. È la vita stessa, a essere
negata all’artista non più allineato, sottrattosi al corso dell’involuzione
socialista: o meglio, lo spazio e le condizioni fisiche ed economiche
minime per vivere; e il rosso della bandiera di una rivoluzione in cui lui
stesso ha creduto sarà ormai un espediente per asciugarsi il sangue senza dare
troppo nell’occhio (e, in questo, la sua parabola non è tanto diversa da quella
di Danton…). È un ritratto
dell’artista “in levare”, più che in negativo, quello che Wajda ci
affida, è l’essenza, tragica e per certi versi grottesca, di un uomo ridotto
allo stremo, quella che si accascia in una vetrina tra i manichini che sembrano
prendersi gioco dei suoi arti mancanti, ma in un certo modo ridotto anche al
puro pensiero. È il resoconto della persistenza ideale di quel pensiero,
della sopravvivenza della teoria alla morte dell’artista stesso – già nel
1956, solo quattro anni dopo la morte di Strzemiński la sua memoria era in parte
riabilitata, e, pochi anni dopo, la Sala neoplastica riallestita – e,
d’altronde, un’altra persistenza, quella retinica dell’immagine, base
fisiologica della visione cinematografica, è evocata e in qualche misura messa
a reagire con la stessa teoria della visione di Strzemiński, e con essa
è messo alla prova lo statuto ontologico, il realismo, dell’immagine
cinematografica. Sottrazione e persistenza, come il calco per una
fusione, la memoria lasciata non solo sulla retina, sul percorso del nervo
ottico, ma anche sulle cose. E ci troviamo a contemplare le lenzuola di un
letto sfatto d’ospedale, insieme alla giovane Nika: non era solo un artista
straordinario, era suo padre. Alessandro
Uccelli
Il ritratto
negato, molto più di un testamento Il film postumo del grande regista polacco
Andrzej Wajda è duro, forte e autentico di
Fabio Ferzetti
Una
giovane pittrice arriva con tele e cavalletto su una collina affollata di
artisti al lavoro. Cerca il professor Strzeminski, grande pittore e mutilato di
guerra che in quel momento, ritto sulle stampelle (gli mancano una gamba e
mezzo braccio), si trova con alcuni allievi in uno dei punti più alti di quel
luogo idilliaco. Riconosciuta la giovane, l’artista le fa un cenno come per
dire “arrivo”. E in effetti, un momento dopo, eccolo lasciarsi rotolare fino a
lei sul fianco erboso della collina, imitato dagli allievi in uno slancio di
amor pànico che ci dice tutto di Wladyslaw Strzeminski, del suo coraggio, del
suo rapporto con l’arte. Poco dopo lo ritroviamo davanti a una tela vergine nel
suo studio di Lodz quando di colpo tela e atelier si tingono di rosso. È un
enorme ritratto di Stalin, issato sulla facciata a coprire le finestre (è il
1948, la stalinizzazione della Polonia prende il volo). Un attimo, e
Strzeminski squarcia il telo con la stampella, riportando la luce nell’atelier
ma firmando anche la sua condanna. Il resto del film, l’ultimo di uno dei più
grandi registi europei del dopoguerra, non fa che confermare quanto anticipato
da queste due scene magistrali. Con una forza, un rigore, un’insistenza così
martellante e priva di speranza da fare di “Il ritratto negato” qualcosa più di
un film-testamento. Un monito. Un omaggio che dietro la figura storica di
Strzeminski, già sodale di Chagall, Malevic e Rodcenko, poi annientato per non
essersi piegato al realismo socialista, sa quasi di autobiografia. Una via
crucis evocata con tutta la durezza di cui Wajda, morto a 90 anni nell’ottobre
2016, era specialista (bastano i titoli: “Cenere e diamanti”, “Senza
anestesia”, “L’uomo di marmo”, “L’uomo di ferro”...). Per mettere a fuoco un
combattente che vive per l’arte, tanto da rifiutare l’amore di una studentessa
e non fare nulla per evitare alla figlia l’orfanotrofio. Ma capace di un gesto
estremo per la moglie, Katarzyna Kobra, qui volutamente invisibile ma
protagonista con lui di un irripetibile sodalizio artistico, che è uno dei
momenti più alti di questo film visivamente raggelato ma pieno di fuoco. Cenere
e diamanti, ancora una volta. Come succedeva quando i film potevano prendersi
il lusso di non smussare, non spiegare, non illustrare. Tanto, dice
Strzeminski, «in arte o in amore potete dare solo ciò che già avete».